La politica dei contadini – parte seconda. Il momento di agire

Ci sono una serie di concetti che utilizziamo spesso per descrivere fenomeni globali e di ampia portata: industrializzazione dell’agricoltura, agribusiness, estrattivismo, mercificazione e finanziarizzazione del cibo, ecc.  Non sono però raffigurazioni astratte, sganciate dalla realtà sociale, economica ed ecologica dei nostri territori. Ce ne accorgiamo, in particolare, quando li vediamo dispiegarsi con violenza e ci troviamo faccia a faccia con le trasformazioni che producono nei paesaggi che siamo abituati ad osservare e a vivere. Nel nostro territorio sta avvenendo qualcosa che evidenzia e rende palesi queste interazioni tra processi globali e contesti locali. Parliamo dell’insediamento di un allevamento avicolo intensivo tra le colline dell’alta Valmarecchia e della resistenza che questo progetto sta incontrando tra gli abitanti della valle che si sono organizzati per bloccarlo.

Si tratta a nostro parere di una situazione che dovrebbe parlare a tutti coloro che hanno a cuore il futuro e la salute delle campagne e che mostra l’urgente necessità di aggregare chi si occupa di sovranità alimentare ed agroecologia attorno ad una prospettiva di attivazione politica e ad una contro-narrazione in grado di contendere terreno – in senso sia materiale che figurato – alle forze dell’agribusiness e ai loro sostenitori.  Insomma, la Valmarecchia in questo momento è un prisma attraverso cui osservare i fenomeni che investono il mondo rurale, comprendere gli spazi di resistenza possibili, riflettere sul modo di riempire e animare questi spazi.

Attraverso questo caso specifico mettiamo dunque in evidenza alcuni processi generali (e vice versa) che mostrano l’urgenza di una riflessione sui modelli di sviluppo agrario. Tale riflessione rimanda quasi immediatamente alla necessità di elaborare un orizzonte strategico e un piano d’azione efficaci. Tutto ciò non può che passare, a nostro parere, attraverso un percorso di confronto, convergenza e messa in rete delle esperienze di resistenza del mondo rurale e contadino con lo scopo di costruire uno spazio politico condiviso e una sua presenza forte e autorevole nello spazio pubblico.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato sviluppo

Lo spazio rurale è sempre più territorio di conquista per accaparratori di risorse e Imperi alimentari* in fase di formazione o consolidamento, anche a causa della crisi ormai strutturale che imperversa sull’agricoltura da anni. Si tratta paradossalmente di due facce della stessa medaglia. Ogni crisi ha d’altronde i suoi vincitori e permette ad alcuni soggetti di consolidare la propria posizione di potere a scapito di altri. L’industrializzazione del cibo e dell’agricoltura prosperano insomma nello sfilacciamento del tessuto sociale e produttivo.

I dati dell’ultimo censimento ISTAT dell’agricoltura (riferiti all’annata agraria 2019/20) confermano in modo impietoso questa duplice tendenza. Il numero di aziende agricole continua infatti costantemente a diminuire. Dal 1982 (anno del primo censimento con dati comparabili a quelli attuali) sono scomparse 2 aziende su tre (- 63,8 %) con un’accelerazione negli ultimi 20 anni, durante i quali il numero di aziende che risulta più che dimezzato. Il ritmo a cui avviene questa contrazione è però di molto superiore alla diminuzione della Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nell’ultimo decennio intercensuario, cioè tra il 2010 e il 2020, il numero di aziende si è ridotto del 30,1% a fronte di una diminuzione della SAU del 2,5%. La discrasia tra questi due dati sta a significare che calano le unità produttive ma non la quantità di terra complessivamente coltivata (o almeno non in maniera altrettanto significativa). Ciò fotografa evidentemente la tendenza alla concentrazione della terra e all’aumento della dimensione aziendale media. La situazione è confermata dal fatto che il crollo del numero di aziende riguarda prevalentemente quelle di dimensioni ridotte, mentre cresce quello di grandi aziende, con un aumento sensibile soprattutto di quelle superiori ai 100 ha. La dimensione è sicuramente un indicatore rilevante del modello di conduzione aziendale, ma c’è di più, perché altri dati mostrano come la transizione sia anche qualitativa e riguardi, diciamo così, il modello di business. Diminuiscono infatti le aziende individuali o familiari, mentre aumentano le società di persone e capitali. Inoltre, in un contesto di generale contrazione del numero di addetti, diminuisce il peso della manodopera familiare all’interno delle unità produttive mentre aumenta l’incidenza del lavoro salariato. Si consolida, detto in altri termini, la relazione tra agricoltura e capacità di mobilitare risorse tecniche e finanziarie per gestire un aumento di scala della produzione che inevitabilmente comporta una transizione da sistemi agricoli ad alta intensità di lavoro, riconducibili all’agricoltura contadina, a modelli ad alta intensità di capitale, di carattere imprenditoriale o capitalistico.

Si tratta di tendenze di carattere storico e strutturale di cui non ci accorgiamo solo oggi ma che negli ultimi anni hanno probabilmente fatto un salto di qualità, sia per la loro progressiva accelerazione, sia per gli effetti cumulativi che con il passare del tempo iniziano a far sentire tutto il loro peso.

La situazione può però anche essere presa in considerazione da un’angolazione che consenta di congiungere i dati strettamente legati ai fenomeni agrari allo stato di salute socio-economica dei territori. Si tratta di un’operazione particolarmente significativa se si guarda alle cosiddette aree interne. In tali contesti la crisi agraria va di pari passo con un marcato declino demografico e con il restringimento dell’offerta di servizi pubblici.

In questo scenario generale va letto ciò che sta accadendo in alta Valmarecchia. Parliamo infatti di un territorio in cui tutti l’intreccio tra crisi socio-demografica e contrazione dell’economia rurale si manifestano con una certa nitidezza. Per quanto riguarda la produzione agricola, si assiste dunque ad una diminuzione del numero di aziende che però in questo caso va di pari passo con una forte contrazione della SAU. Il che mostra che la dimensione di crisi non è stata accompagnata da una transizione produttiva e gestionale verso sistemi di conduzione di carattere marcatamente industriale, meno scontata ovviamente in aree collinari e montane. Lo spazio – fisico e socio-economico – che tali processi di contrazione lasciano scoperto crea comunque le condizioni perché ciò possa prima o poi avvenire. L’ingresso di Fileni in valle senza nemmeno bussare sta lì a ricordarcelo.

Il gruppo Fileni è la rappresentazione paradigmatica dell’Impero alimentare in ascesa. Parliamo infatti di un operatore di grande rilievo in un comparto, quello delle produzioni avicole, fortemente industrializzato, orientato alle economie di scala e caratterizzato da alta concentrazione (vedi anche qui e qui). Il gruppo Fileni è sul podio dei principali operatori del settore in termini di fatturato (ca 500 mln €/anno) e, anche se insegue i primi due – AIA (ca 3,5 mld €/anno) e Amadori (ca 1,5 mld €/anno)** – a una certa distanza, mostra un’evidente propensione all’estensione della scala produttiva e all’aumento del fatturato. Ciò conduce la società a colonizzare nuovi territori in un’ottica prettamente estrattivistica, trasformando cioè questi ultimi in mere piattaforme produttive da cui ricavare risorse utili a sostenere il processo di crescita, scaricando poi i costi su ecosistemi e comunità locali. I margini di ampliamento vengono rilevati soprattutto nell’export e nel segmento biologico, nel quale Fileni cerca di affermarsi come principale attore di mercato. Sulle contraddizioni e squilibri socio-ecologici dell’allevamento intensivo biologico (con particolare riferimento all’insediamento in Valmarecchia) è stato già scritto parecchio (si veda anche qui), ma vale comunque la pena sottolineare come questi soggetti, grazie alla loro disponibilità di capitali, possano facilmente insediarsi in contesti critici, propagandando opportunisticamente il proprio radicamento come occasione di sviluppo. Se poi si dà una passatina di vernice verde a questo modello di sviluppo fagocitante definendolo anche “sostenibile” o “bio”… meglio ancora!

Nonostante tutto c’è ancora chi resiste

Se queste sono le macrotendenza non vanno tuttavia assolutizzate. Tra le pieghe di questi processi prendono infatti forma fenomeni di resistenza diffusa, spesso invisibili. In altre occasioni abbiamo sostenuto come la persistenza della stessa agricoltura contadina, sia sotto forma di singole esperienze produttive che nelle sue espressioni più organizzate, rappresenti un sintomo di questa tensione.

Negli ultimi anni si è anche assistito a una spinta verso nuove forme di ruralità in alcuni settori di società, soprattutto giovanili – quello che con una espressione che non amiamo particolarmente è stato definito “ritorno alla terra”. Da qui sono scaturite innegabilmente molte esperienze interessanti che sono andate ad alimentare le fila delle produzioni contadine e agroecologiche, ma nel complesso oggi è evidente come il neoruralismo non sia stato in grado di innescare una dinamica di ricambio generazionale e di complessivo rinnovamento dell’agricoltura. Anche su questo i dati del censimento sono disarmanti. Alla faccia delle retoriche ottimistiche di chi presentava gli strumenti di Primo Insediamento (nelle varianti PAC e ISMEA) come elementi di svolta, la quota di capi azienda con meno di 44 anni diminuisce tra il 2010 e il 2020 dal 17% al 13%.

La diminuzione di aziende descritta in precedenza, evidentemente, non è solo legata alla chiusura di quelle preesistenti ma alle difficoltà di favorire nuovi ingressi nel settore. Troppe le barriere all’accesso (difficoltà di accesso alla terra e al credito, ostacoli burocratici, ecc.), insufficienti le politiche pubbliche, oltre alle difficoltà che rendono difficile consolidare e rendere sostenibile l’attività, garantendone la sopravvivenza, qualora ci si riesca ad insediare (accesso ai mercati, costi di gestione, accesso a risorse per nuovi investimenti, livelli inverosimili di burocrazia).

Nel complesso, dunque, ci troviamo di fronte ad una situazione estremamente contraddittoria, in cui il tessuto sociale rurale mostra ancora una certa vitalità, ma in cui allo stesso tempo occorre tener presente che man mano che i processi di industrializzazione e concentrazione si dispiegano, si riducono i margini di azione e di iniziativa per chi resiste. Banalmente perché viene erosa la base sociale su cui dovrebbe poggiare una trasformazione in senso agroecologico, perché sempre più rarefatti sono i soggetti – i contadini – che dovrebbero esserne i protagonisti e i primi attuatori.

Ancora una volta il caso della Valmarecchia offre spunti di riflessione interessanti. l’imposizione di un maxi-progetto inviso alla popolazione ha reso una particolare forma di resistenza all’industrializzazione visibile ed esplicita, permettendo di coglierne sia le potenzialità che gli ostacoli che si trova ad affrontare.

La composizione del comitato Salute, Valmarecchia! è infatti espressione del tessuto sociale locale. Ci sono alcuni produttori agricoli, anche se tra gli animatori della protesta troviamo diversi titolari di aziende extra-agricole. Le politiche di sviluppo rurale, in particolare attraverso il GAL della vallata, hanno puntato molto sui temi del turismo lento ed esperienziale, favorendo la nascita di piccole aziende legate a questo tema.

 Attività, dunque, strettamente legate all’identità e alla storia del territorio che percepiscono – a ragione – il progetto di allevamento come una minaccia a questi elementi, alle motivazioni che li hanno portati ad investire la propria vita nella vallata e come una palese contraddizione con le retoriche di sviluppo sostenibile di cui sono ammantante le politiche pubbliche (dal GAL alla Strategia Aree Interne). In qualche modo, queste persone dunque, rappresentavano già prima di questa battaglia una forma di micro-resistenza rurale, anche se non strettamente contadina, all’abbandono dei territori e agli elementi di crisi di cui parlavamo all’inizio. Il progetto di allevamento ha coagulato le componenti più vivaci del tessuto locale trasformandole una piccola comunità.

Una comunità attiva e vivace, ma che si trova comunque immersa in dinamiche demografiche e socio-economiche locali tendenzialmente negative e che deve fare i conti con l’assenza di un tessuto economico agrario solido, tutti elementi che frenano l’ulteriore estensione della base sociale della protesta. La contraddittorietà dello scenario generale la ritroviamo tutta all’interno contesto locale.

Per quanto ci riguarda, nell’ambito del quadro appena delineato, ci preme sottolineare soprattutto come fino ad oggi, pur essendo presente attraverso l’impegno e le prese di posizione di singoli produttori, sia rimasto un po’ in sordina un punto di vista che si interrogasse sul futuro agricolo della valle, contrapponendo al progetto di allevamento una prospettiva di sviluppo agroecologica.

Qui si inserisce anche il ruolo problematico delle associazioni di categoria del mondo agricolo che appoggiano in modo compatto e senza alcuna riserva l’impianto Fileni, promuovendolo come non meglio specificata occasione di sviluppo. Sappiamo che queste organizzazioni, nella migliore delle ipotesi, sposano il paradigma della convivenza, la possibilità, cioè, che l’agricoltura contadina possa coesistere come nicchia (subalterna) accanto alle grandi produzioni industriali eventualmente legate all’agroexport. La prima sostenuta quel tanto che serve a tenerla a galla, relegata nelle aree più marginali e ammantata di un’aura romantica che consenta di continuare a vendere la favola delle eccellenze italiane e del made in Italy, le seconde in posizione di dominio. È evidente che quando l’incompatibilità tra questi due modelli si palesa, come in Valmarecchia, vengono sostenuti senza remore gli interessi dell’agribusiness perché visti come quelli che fanno girare la “vera” economia, promuovono il “vero” sviluppo e tengono in vita le campagne.

Sarebbe di enorme aiuto ad una lotta come questa se qualcuno avesse la forza di ribattere che il modello di sviluppo agrario sotteso all’allevamento Fileni, come abbiamo mostrato, è esattamente quello che contribuisce a svuotare le campagne e che allo stesso tempo di questo vuoto si nutre. L’assenza di una voce critica del mondo agricolo inevitabilmente indebolisce la mobilitazione e lascia scoperto un fianco della protesta.

Per concludere…

Le campagne italiane sono animate da resistenze che potremmo definire “puntiformi” perché, individuali o collettive che siano, pur condividendo gli stessi presupposti etici risultano frammentate e isolate, ancorate al contesto locale e spesso schiacciate su una dimensione pratica (costruzione di reti alimentari alternative, attenzione alla dimensione produttiva e alle pratiche agronomiche, ecc.). Finora, dunque, non sono riuscite a coagularsi intorno ad una narrazione che si ponesse apertamente l’obiettivo di mutare i rapporti di forza tra agribusiness e agricoltura contadina e che fosse in grado di invertire le drammatiche tendenze di cui abbiamo parlato sopra. L’ancoraggio ai sistemi territoriali e la capacità di costruzione rappresentano innegabili punti di forza del modello contadino e dell’agroecologia. Oggi però, abbiamo la necessità di costruire una progettualità che abbia l’ambizione di essere contro-egemonica, di contendere terreno e spazio, cioè, ai processi di industrializzazione. Tanto più in un contesto in cui si assiste alla sussunzione da parte del sistema di molte istanze critiche legate all’agricoltura contadina e ai movimenti sociali (biologico, sostenibilità, persino sovranità alimentare, ecc.) per piegarle alla logica del profitto. Tutto ciò rende il terreno di scontro ancor più scivoloso e le sfide che abbiamo di fronte particolarmente ambiziose. A maggior ragione occorre dotarsi di strumenti politici, culturali e organizzativi adeguati.

Abbiamo provato a sottolineare queste esigenze attraverso l’esperienza di quella che secondo noi è un’importantissima lotta locale ma con possibili proiezioni più generali. La presenza nello spazio pubblico di un forte punto di vista critico basato sui principi dell’agroecologia e della sovranità alimentare sarebbe un sostegno fondamentale per battaglie come questa e allo stesso tempo ne sarebbe rafforzato ulteriormente.

Per queste ragioni crediamo fortemente nell’esigenza di una “convergenza contadina”. L’obiettivo strategico, a nostro avviso dovrebbe essere la costruzione di uno spazio aperto e plurale ma allo stesso tempo permanente e organizzato in grado di elaborare di un punto di vista contadino, agroecologico e legato ai principi della sovranità alimentare, di mettere in rete esperienze e resistenze sostenendole e facendole uscire dall’isolamento, di intervenire nel dibattito pubblico con una sua voce e sue iniziative.

Un sostegno politico alla lotta della Valmarecchia che vada al di là della semplice solidarietà formale, rappresenterebbe oggi già un utile banco di prova…

* Sul concetto di Impero alimentare il riferimento sono i testi di van der Ploeg p. es. “I nuovi contadini” (Donzelli, 2009) o Percorsi di sviluppo rurale: il modello “contadino” (in L’altra agricoltura… verso un’economia rurale sostenibile e solidale, a cura di Rete nazionale per lo sviluppo rurale, 2009). (Torna al paragrafo)

** I dati sui fatturati delle aziende avicole sono facilmente reperibili consultando i bilanci di sostenibilità pubblicati sui rispettivi siti. (Torna al paragrafo)

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